Alexa Pantanella è fondatrice di Diversity & Inclusion Speaking, organizzazione che promuove il ruolo del linguaggio come strumento d’inclusione. Nel 2022, ha pubblicato “Ben Detto”, saggio dedicato al linguaggio inclusivo.
Rispetto a qualche anno fa, non c’è dubbio che l’attenzione sul ruolo che il linguaggio gioca nel creare relazioni e ambienti di lavoro più inclusivi, è molto cresciuta. E questo è un fattore positivo. Perché richiama l’importanza del contributo che ciascuno di noi può dare nel proprio quotidiano, per favorire maggiore inclusività.
Ma cosa s’intende con questa parola? Maggiore capacità di ascolto, accoglienza, rispetto e una più aperta convivenza tra le identità o diversità che esistono in qualsiasi azienda.
Il dibattito sul linguaggio inclusivo in Italia
Con il crescere dell’attenzione intorno al tema del linguaggio in Italia, si è però anche molto inasprito il dibattito, che a volte sembra centrarsi “solo” su questioni di genere o identità di genere.
Mi riferisco alle diverse posizioni, che è possibile incontrare, relativamente per esempio all’uso dei femminili nelle professioni: sindaca, avvocata, ingegnera. Termini che incontrano ancora molta resistenza, nonostante siano corretti da un punto di vista morfologico e semantico e che altro non fanno che individuare il genere della persona che ricopre un ruolo.
Altro aspetto oggetto di discussione, riguarda l’utilizzo di desinenze neutre nell’italiano, come lo schwa, l’asterisco o la chiocciola, per ridurre l’utilizzo del cosiddetto “maschile sovraesteso”. Per esempio, forme come “Buongiorno a tutti”, “Cari colleghi” possono essere sostituite con “Buongiorno a tutt*”, oppure “Carə collegə”. Si tratta di formule più inclusive a livello del genere, che però al momento non sono ancora riconosciute dai principali lettori di schermo e che potrebbe rendere un testo poco accessibile ad alcune categorie di persone con disabilità sensoriali o forme di neurodivergenze.
Ma il dibattito non si esaurisce a questioni di questo tipo, seppur rilevanti.
Il ruolo del linguaggio inclusivo in azienda
Il ruolo del linguaggio, utilizzato all’interno (così come all’esterno) di qualsiasi azienda, è essenziale su molti fronti.
Pensiamo a quanto è possibile che, con le nostre parole, ci capiti di trasferire una cultura abilista, cioè discriminante verso le persone con disabilità: “Questa funzione non riesco proprio a usarla. Mi sembro un’handicappata”, oppure “Il cliente non fa che cambiare idea: sarà mica bipolare?!”. Esempi di questo tipo, spesso passano al di sotto del radar della nostra consapevolezza, perché sembrano solo “battute”. Ma come potrebbero sentirsi le persone con cui lavoriamo, che magari hanno una disabilità non visibile, di fronte a questi commenti? Quanto accoglienti e all’ascolto dimostriamo di essere?
Pensiamo anche ai commenti che potrebbe capitarci di fare o ascoltare relativamente all’età delle persone: “Per essere giovane è molto professionale!”, oppure “Il profilo è interessante, però a 45 anni non so dove sia possibile inserirlo”.
Sono solo un paio di esempi di come, spesso involontariamente, diffondiamo ageismo nei contesti di lavoro: cioè forme di discriminazione nei confronti delle persone, sulla base della loro età anagrafica. Alta o bassa che sia. L’uso di un linguaggio ageista rischia di rinforzare aspettative, stereotipi e visioni desuete sulle persone, semplicemente perché le assegniamo a una determinata fascia d’età.
Allenati a usare consapevolmente il linguaggio
Se siamo d’accordo con quanto esposto finora e con la volontà di contribuire a creare ambienti di lavoro e relazioni più rispettose, perché tutto questo semplicemente non avviene?
La buona notizia è che con un po’ di allenamento possiamo usare il nostro linguaggio in azienda in modo più consapevole e rispettoso.
Perché abbiamo poca abitudine a questionare il modo in cui usiamo il linguaggio, affidandoci ad automatismi, che rendono l’uso di questo strumento più veloce e meno faticoso. Ma che ci fanno incappare in stereotipi, pregiudizi ed etichette, molto più spesso di quanto immaginiamo.
La buona notizia è che con un po’ di allenamento possiamo interrompere questi automatismi e iniziare a usare il nostro linguaggio in azienda in modo più consapevole e rispettoso. Possiamo farlo applicando la regola delle 3 “I”.
1. Intenzione
Chiediamoci il più possibile cosa intendiamo, cosa stiamo realmente trasferendo con il nostro linguaggio. Fermiamoci qualche frazione di secondo per interrogarci più a fondo e il più spesso possibile circa il reale significato di quello che stiamo comunicando.
Perché, per esempio, facciamo riferimento alla provenienza geografica di una persona che lavora con noi? Aggiunge qualcosa al discorso? Oppure, i commenti che facciamo sull’età, che visione dell’essere giovane o più grande veicolano? O ancora, quella battuta sul sembrare una persona bipolare, che cosa dice della conoscenza e vicinanza al tema che abbiamo?
2. Impatto
Quanto abbiamo l’abitudine di leggere l’impatto che provoca il nostro linguaggio? Quanto siamo consapevoli delle emozioni e percezioni che generano le nostre domande, battute, gesti, ecc?
Portare la nostra attenzione su ciò che provochiamo e non solo su ciò che diciamo o scriviamo, può favorire un’attenzione a tutto tondo sul nostro linguaggio. Il cuore di una comunicazione non sta tanto in chi la emette, ma in chi la riceve, in cosa prova, in come si sente. Per cui, esercitarsi in questa forma di ascolto delle percezioni e reazioni altrui, può essere un allenamento chiave nel nostro percorso.
3. Io
Se vogliamo che qualcosa cambi, dobbiamo iniziare da noi. Ognuno può fare la sua parte, iniziando a lavorare sul proprio linguaggio, senza aspettare che qualcuno ci dica quando e come farlo.
Spero che chi di voi ha trovato spunti interessanti in questo articolo, voglia mettersi al lavoro sul proprio linguaggio. Anche da subito, per produrre il cambiamento che volete vedere, nelle vostre e altrui parole.
Scopri di più sull’impegno di Google per favorire l’uso di un linguaggio inclusivo dentro e fuori i luoghi di lavoro visitando all-in.withgoogle.com.